lunedì 30 dicembre 2013

IL MALE COME SFIDA SENZA PARI

In questo tempo di festa, il tempo del Natale, non è forse appropriato scrivere sul male. Eppure il tema mi si è presentato, e non credo poi che sia fuori luogo. Se si festeggia la nascita di un Dio che si è fatto uomo per esserci più vicini, come giustificare il male che sempre sperimentiamo? La domanda su come conciliare la presenza del male con l’esistenza di Dio percorre tutti i secoli e forse in questo tempo natalizio dove vediamo tutto più rosa e ci è chiesti di essere più buoni (non dalla religione quanto dalla televisione..) non fa male sollevare alcune questioni . Senza pensare di poter fare una storia del pensiero sul male possiamo dire che a lungo si è cercato di giustificare Dio. I discorsi sono diversi tra loro ma tutti devono sottostare a coerenza logica: non deve esserci contraddizione all’interno e si deve trattare di una totalità sistematica.
I presupposti irrinunciabili di partenza sono:                                    

Dio è onnipotente
Dio è assolutamente buono                                                   
Tuttavia il male esiste

Senza voler far sembrare tutto molto schematico e difficile (e pure noioso), basta dire: se Dio è buono, e può tutto, perché allora il male con la sua esistenza ha la meglio sulla bontà e sulla potenza di Dio? Se Dio può tutto perché non elimina il male? Forse non è così potente? E allora cadiamo in contraddizione con i principi di cui sopra. O forse non è assolutamente buono. Altra contraddizione. Non possiamo supporre che il male non esista… dunque, da dove viene il male? I tentativi di risposta sono molti. Ne sfioriamo, seguendo Paul Ricoeur, alcuni.

-          Il Mito: quello che ora, ai nostri occhi sembra spiegazione fantastica per bambini è stato un contenitore importantissimo di diverse spiegazioni. I diversi miti sono anche tra loro non coerenti, spesso volutamente, ma la loro ragion d’essere è di consentire di articolare in un linguaggio l’esperienza del male. Ogni mito offre la sua risposta  “inquadrando la doglianza del supplicante in una cornice di un universo immenso” , e così offre la “consolazione dell’ordine”.

Dopo il mito la domanda si perfezione dal perché? Al perché io? Non basta raccontare (descrivere) quali sono le origini della condizione umana ma è chiesto di argomentare (trovare le cause) del  perché per ciascuno  la propria condizione umana è tale (ovvero inestricabile dal male).
-           Una spiegazione esemplare è espressa dal concetto di Retribuzione: “ogni sofferenza è meritata perché è la punizione di un peccato individuale o collettivo, conosciuto o sconosciuto.”Questa soluzione lascia però insoddisfatti chi ha un senso di giustizia: la ripartizione appare arbitraria.

-          Per Agostino l’esperienza del male è “esperienza insieme individuale e collettiva dell’ impotenza  dell’uomo di fronte alla potenza demoniaca di un male già là, prima di ogni iniziativa malvagia imputabile a qualche intenzione deliberata.” Il male esiste ma non come sostanza bensì come mancanza di essere. L’uomo compie il male quando si allontana da Dio e va verso il nulla, il male dunque non appartiene all’uomo, non è creato da Dio, non sussiste, non ha essere, è privazione di essere, è negazione di Dio.


-          Leibniz nella sua teodicea sostiene che il nostro mondo è il migliore dei mondi possibili, perché, se fosse stato possibile creare un mondo migliore, Dio lo avrebbe creato. Questo enunciato tiene insieme senza contraddizioni i principi anche se si sbilancia troppo presumendo di conoscere i limiti di Dio. Ad ogni modo, ciò che più fa pensare con scetticismo è che c’è bisogno di forte ottimismo per affermare che il bilancio di questo mondo è complessivamente positivo.

-          Hegel promuovendo la sua  dialettica sostiene che la negatività è ciò che costringe ciascuna figura dello Spirito a rovesciarsi nel suo contrario, ovvero fa coincidere il tragico e la logica: è necessario che qualche cosa muoia perché qualcosa di più grande nasca. Tutto il male è superato, la riconciliazione vince sulla lacerazione. Eppure questa visione universale “Dissocia radicalmente la riconciliazione (che ha una dimensione universale) da ogni consolazione che si rivolga all’uomo in quanto vittima(dimensione particolare).” Non potremmo allora non essere d’accordo con  Hegel quando dice che la storia“non è il terreno della felicità.”

Sul piano del pensiero il problema del male è una sfida. Cercare di offrire una soluzione a questo dilemma, a questo conflitto insanabile per la ragione umana è impossibile. La sfida raccolta da Ricoeur è quella di pensare di più e pensare altrimenti: il problema del male davanti a Dio non va sottomesso all’esigenza di coerenza logica perché “il nostro pensare non può essere esaurito dai ragionamenti che sottostanno alla non-contraddizione e alla nostra propensione per la totalizzazione sistematica.” Alla domanda sempre aperta del perché, la risposta- e non la soluzione- è data dall’azione e dalla spiritualità, esse continuano il lavoro del pensiero affinché diano frutto nel registro dell’agire e del sentire.
Dalla domanda donde viene il male, la risposta dell’azione è: cosa fare contro il male? Ogni azione etico-politica che diminuisca il male commesso dagli uomini contro gli altri uomini è risposta pratica alla domanda sul male. Ma essa ha riscontri anche sul piano del pensiero: prima di accusare Dio, agiamo eticamente contro il male.  
Resta però una parte di sofferenza non causata dall’azione malvagia degli uomini, come rispondere al male degli innocenti? Alle catastrofi naturali? La risposta pratica non è più sufficiente.

La risposta emozionale serve a completare la risposta- e non la soluzione, che presupporrebbe una totalità sistematica inammissibile- di un pensare altrimenti. Ricoeur prende in esame la trasformazione dei sentimenti che generano  la lamentazione e la doglianza. Questa proposta è presentata solo come uno dei cammini passibili, è un percorso difficile e non può valere da modello. Per osservare le trasformazioni dei sentimenti pone a tema il lutto, ovvero la perdita di un oggetto di amore percepita come perdita di se stessi.
In una situazione di questo tipo il primo passo da compiere è dare scacco alla teoria della retribuzione: se soffro per un lutto non devo accusarmi di qualche colpa. Dio non ha voluto punirmi, né voleva si compisse questo male.
Il secondo passo è quello della doglianza contro Dio, protestare la permissio divina -ovvero l’idea che Dio non abbia compiuto il male ma abbia permesso che venisse compiuto: bisogna intendere la relazione dell’uomo con Dio come un processo reciproco, costruire insieme l’Alleanza. “L’accusa contro Dio è qui l’impazienza della speranza”.
Il terzo stadio della spiritualizzazione della lamentazione sta nello scoprire che le ragioni del credere in Dio non hanno niente in comune con il bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. La sofferenza è uno scandalo solo per colui che comprende Dio come origine di tutto ciò che è buono, compresa indignazione contro il male e la simpatia per le sue vittime. Non dobbiamo credere in Dio perché non permette il male, bensì “noi crediamo in Dio a dispetto del male.”

Non rientriamo negli schemi chiusi e limitanti della non contraddizione, ma apriamoci a un pensare altrimenti, per trovare risposte- e non soluzioni, al nostro stato, Questo è il pensare altrimenti che ci offre il filosofo:

“ l’orizzonte verso cui si dirige questa saggezza mi pare essere una rinuncia ai desideri stessi la cui ferita produce la lamentazione: rinuncia innanzi tutto al desiderio di essere ricompensato per le proprie virtù, rinuncia al desiderio di essere risparmiato dalla sofferenza, rinuncia alla componente infantile del desiderio di immortalità. Alla fine del libro di Giobbe è detto che Giobbe è giunto ad amare Dio per nulla. Amare Dio per nulla significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la lamentazione resta ancora prigioniera, tanto che la vittima si lamenta per l’ingiustizia della propria sorte.”[1]






[1] Tutte le virgolettature sono di P.Ricoeur, Il male, 1993, Editrice Morcelliana. Le pagine non sono indicate perché il testo è molto bello e breve e invito a leggerlo integralmente!

giovedì 21 novembre 2013

Scuola: Religione Universale

“L’obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere”.

Io amo Ivan Illich.   Non si può non riconoscere che le sue affermazioni siano tutt’altro che provocatorie quanto rivelatrici. Troppo facile definirlo rivoluzionario o sovversivo e accantonare il suo pensiero come originale, fantasioso, fantastico. Più difficile è prenderlo sul serio e lasciarsi interrogare dalla sua capacità di visione, che lo fa essere un vedente tra i ciechi, che siamo noi.

Il tema dell’istruzione ci coinvolge tutti personalmente. Non solo tutti ne abbiamo avuto esperienza ma essa è diventata valore universale da tutelare e promuovere. Chi di noi non ha qualcosa da dire circa la scuola e il suo funzionamento? Riconosciamo questo fermento che riguarda l’istruzione? Da una parte c’è la tensione a voler perfezionare il servizio scolastico e ad aumentare la fruibilità di scuole e università in nome di un diritto allo studio, dall’altro il valore dello studio non viene riconosciuto se non viene attuato attraverso percorsi istituzionali. Il sospetto è che l’istruzione così fornita, e solo così avvalorata ed apprezzata, non sia un valore morale quanto una merce.

Se acuiamo la vista notiamo che la società globale, dal nord al sud del mondo, richiede una maturità fabbricata in serie: il valore dell’istruzione di un uomo è determinato dal numero di anni di scuola e dal costo delle scuole frequentate. Questo non solo produce un mercato che in quanto tale ha come obiettivo il guadagno economico invece che la promozione dell’apprendimento ma, in quanto mercato, esso è in se stesso insostenibile. La domanda sarà sempre al di sopra delle possibilità di offerta della Società.  Questa svalutazione dell’attività autonoma produce un bisogno, il bisogno di istruzione istituzionale, e il bisogno di istruzione genera il diritto all’istruzione. E non c’è diritto per il cittadino che non sia
dovere per lo Stato. Lo Stato ha il dovere di rispondere al bisogno di tutti i cittadini ad avere l’istruzione che chiedono.  Ma lo Stato non potrà mai fornire borse di studio, sussidi scolastici, insegnanti e quant’altro a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Così la civiltà del progresso propone modelli inattuabili e genera innumerevoli frustrati. Se si ammette che è diritto di tutti lo studio, tanto da rendere obbligatorio un percorso scolastico, coloro che per motivi diversi non possono accedervi non solo restano privati di ciò che è considerato un diritto, ma la loro stessa condizione di svantaggiati arreca scandalo alla società (che si percepisce fallita nei suoi intenti) e genera mortificazione in quelle persone che, tagliate fuori dal sistema, si percepiscono fonte di scandalo. Quanto più si insiste sul diritto per tutti a una istruzione quanto più ci si scandalizza per quei casi di mancata istruzione, quanto più si umiliano questi casi.

“C’è la convinzione diffusa che il comportamento acquisito sotto gli occhi di un pedagogo abbia un valore speciale per l’allievo e costituisca uno speciale vantaggio per la società” e così  “la scuola, facendo abdicare gli uomini alla responsabilità del proprio sviluppo, ne conduce molti a una sorta di suicidio spirituale.” Ecco dove andiamo incontro potenziando un modello paternalistico. Se cerchiamo il consenso e l’approvazione del Padre, nelle veci dell’istituzione, per  avere conferma del valore del nostro sapere non diventeremo mai donne e uomini capaci di migliorare la società. Come è possibile migliorare ciò che ci è stato consegnato se se veniamo plasmati culturalmente da quella stessa struttura che vogliamo cambiare?

Spersonalizzare la responsabilità dell’educazione affidandola ad un ente, non solo produce il suicidio spirituale-intellettuale di massa- in quanto ogni apprendimento ha valore se è scelto personalmente in base agli interessi di ciascuno, ma disincentiva autentici rapporti umani. Non siamo più liberi di scegliere i nostri maestri, di avvicinarci a coloro che riconosciamo detentori di un sapere per divenirne discepoli, e non siamo più consapevoli del nostro specifico sapere che a nostra volta può essere disposizione di chi voglia riceverlo.
Sono convinta che una società che richieda meno “bollini” e più sapere non possa che fiorire. Potremmo finalmente mostrare il nostro valore, e non, come dice Illich, essere costretti ad esibire il nostro pedigree scolastico. Nella libertà e nell’autonomia sarebbe favorita una reale uguaglianza sociale.

Le riflessioni potrebbero moltiplicarsi. Voglio solo ringraziare questo meraviglioso pensatore per averci dato la possibilità di guardare alla realtà con speranza offrendoci con entusiasmo nuove prospettive per democrazie felici.
 “ E poiché una vita ricca di godimento è una vita di rapporti costantemente significativi con gli altri in un ambiente significativo, l’eguaglianza di godimento non può che tradursi in eguaglianza di educazione”.

lunedì 18 novembre 2013

NUOVO SOLSTIZIO


Vedo nuvole in viaggio
che hanno la forma delle cose che cambiano
mi viene un po’ di coraggio
se penso che le cose poi non rimangono mai
come sono all’inizio
2013, un nuovo solstizio
se non avessi voluto cambiare
oggi sarei allo stato minerale
(Estate, Jovanotti)

Un po' inflazionato come testo e forse anche come autore…però arriva e colpisce, nel segno! 
Nuovo solstizio, proprio così! Quanti ne abbiamo passati nella nostra vita, be' è ovvio che dipende dagli anni che si hanno, per quanto mi riguarda sono quasi 50 (aiuto, che impressione!!). Ma non voglio ragionare in termini astronomici, piuttosto metaforici. 
Il solstizio segna un cambiamento di tempo, segna l'inizio di una nuova stagione. Ecco, è così che mi sento all'inizio di una nuova stagione; alla vigilia di un cambiamento. 
I nostri tempi sono segnati dalle tappe significative della nostra vita: il giorno della nascita, il primo giorno di scuola elementare, e poi media e poi superiore, i diplomi, gli esami, la o le lauree, i matrimoni, proprio e quello degli altri, un incontro, la nascita dei figli, un nuovo lavoro, il primo lavoro, una malattia, l'esperienza della morte altrui, un successo a livello lavorativo e non…Sono tanti gli attimi, gli eventi che nella vita di ciascuno hanno segnato un nuovo solstizio, un cambiamento di ritmo, un tempo fondamentale da annotare sull'agenda o che comunque rimane impresso nei ricordi. 
La memoria, l'attenzione, l'attesa sono questi gli atteggiamenti fondamentali che Agostino riconosce propri dell'uomo e della sua esperienza del tempo. Agostino, il grande filosofo, che dice: "Che cos’è dunque il tempo? Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so". 
Perché il tempo fugge, sfugge, difficilmente lo si può definire. Noi il tempo lo scandiamo attraverso  gli anni, i mesi, i giorni, le ore, i secoli e così via, eppure questo nostro tentativo di regolare il tempo, dandogli una forma, attribuendogli uno schema in cui inserirlo, non basta per capire e svelarne il contenuto, l'essenza.
E allora Agostino riporta il tempo alla dimensione dell'animo. È lì che noi viviamo il tempo, lo percepiamo. È per questo che difficilmente un'ora è uguale a tutte le altre ore, che a volte sembra che il tempo sfugga e altre che non passi mai; che il mio tempo non è uguale al tuo tempo, che ciò che è perso per te è stato guadagnato per me; che ciò che io attendo trepidante per te è già passato, che ciò che io ho già vissuto e serbo nella memoria per te è non è ancora. 
E viviamo incessantemente divisi tra ciò che è stato e ciò che sarà. Tra il nostro passato e il futuro che ci attende e a cui corriamo incontro sperando ma anche un po’ tremando. Sicuri di ciò che è stato, ma completamente all’oscuro di ciò che ci attende.
Il tempo si connota dunque anche attraverso sentimenti e stati d’animo. Per questo è così difficile parlarne, perchè dentro il tempo che viviamo, dentro il tempo che scorre ci siamo noi, tutti interi, con tutti i nostri problemi, ansie, gioie, con tutto il nostro essere. E il tempo che è stato in cui noi non eravamo e il tempo che sarà in cui noi non saremo più, avrà in sé tante altre storie, tanto altro essere.
Non c’è Storia senza storie, non c’è tempo senza essere (oh Heidegger!).
Ciascuno di noi scrive la propria storia, afferma il proprio essere nel tempo, che diventa inevitabilmente il suo tempo.

Quale sarà la prossima tappa? Come continuerà la nostra storia? Siamo autori e protagonisti insieme. Siamo essere nel tempo. 

martedì 5 novembre 2013

I sogni son desideri


«Il desiderare indica qualcosa, rinvia a qualcosa che sta davanti a noi e che non percepiamo ancora chiaramente. Contiene un presentimento e una anticipazione delle nostre aleatorie opportunità di vita migliore. I suoi paesaggi custodiscono il bisogno del dover-essere proprio nel cuore dell'essere, di cui anzi garantiscono paradossalmente la consistenza: "I desideri non fanno nulla, ma dipingono e conservano con particolare fedeltà ciò che dovrebbe essere fatto. La ragazza che vorrebbe sentirsi brillante e corteggiata, l'uomo che sogna di imprese future, sopportano la povertà o la quotidianità come una corteccia provvisoria"» (R. Bodei, Introduzione a Principio speranza di Bloch)


Io voglio, io vorrei….quante volte abbiamo iniziato una frase con il verbo volere? Quante volte abbiamo fatto l’elenco delle cose che ci mancano e che preferiremmo possedere per rendere la nostra vita un po’ più piena, facile, felice?

Ma poi questo volere è davvero un desiderare? Non si rischia di volere sempre di più e di desiderare sempre di meno?

Il desiderio è, sì, legato, come il volere, ad una mancanza, ma tale mancanza non ha contorni netti, non rimanda a qualcosa di materiale, il cui acquisto, il cui raggiungimento soddisfa e appaga, il desiderio è sempre proiettato verso un oltre, una trascendenza, di cui non si riescono a cogliere con precisione i confini, i tempi, i modi della sua realizzazione. È un anelito, un tendere verso, un aspirare. Un sognare.
È un presentimento, un’anticipazione, appunto. Un mancare che però non si sa bene in cosa consista. Ha qualcosa di aleatorio, di struggente, quasi – paradossalmente – di nostalgico.


Il desiderio è anche ciò che permette, come dice Bloch, di rendere la nostra quotidianità, fatta di fatiche, di sofferenza e di provvisorietà, un po’ più sopportabile, perché permette di conservare la speranza che un futuro migliore è possibile, che ciò che si sta vivendo non è assoluto, né tanto meno definitivo. Che le cose possono ancora cambiare, e in meglio. Che la vita può riservare ancora tante sorprese, che non è ancora il tempo di dire “basta”, perché ciò che basta alla fine non basta mai.
Il desiderio contiene in sé una promessa, una speranza, magari anche un’illusione, un disincanto. Non tutto ciò che si desidera risulta essere possibile, ma proprio qui sta il bello! Il desiderare, infatti, porta a scavalcare la realtà, porta a sognare ad occhi aperti. A non smetter di far progetti, di accumulare aspettative, di allungare la lista delle cose da fare, di riempire il cassetto dove teniamo chiusi i sogni.
I desideri alimentano allora la nostra quotidianità, ci spingono ad andare avanti, a non fermarci di fronte ad una giornata buia e grigia perché in fondo si spera che domani ci sia il sole!

Ecco perché trovo che sia spaventoso quanto noto una quasi totale mancanza di aspirazioni e di sogni negli adolescenti che mi circondano. Ma come è possibile, mi chiedo! Come si può vivere gli anni più proficui della propria vita, gli anni in cui si è pieni di energia e di forza, senza desideri, senza sogni, schiacciati solo sul presente, sull’immediatezza? Da dove nasce questa assenza di sogni, di aspirazioni?

C’è chi parla della nostra come l’epoca delle passioni tristi[1], mutuando questa espressione da Spinoza e attribuendola al nostro secolo, in cui sembrano dominare come sentimenti prevaricanti l’impotenza e la disgregazione di fronte ad un futuro che non viene percepito come un’occasione, ma come una minaccia. In cui la fan da padroni l’individualismo e l’economicismo, in cui tutto è merce e l’obiettivo principe di ogni tipo di attività è quello di vendere e quindi, al fine, guadagnare. In cui i legami familiari, sociali si sbriciolano, vanno a pezzi, perché ognuno è spinto da questa logica commerciale a pensare a sé. In cui ciò che veramente conta non è desiderare ma sopravvivere.

Come uscire da questa logica disgregante e controproducente?
Secondo gli autori occorre fare resistenza, scontrarsi e opporsi a questa logica recuperando la dimensione dei legami e della creatività, ricominciando a tessere relazioni, reti che permettano all’uomo di uscire dall’isolamento in cui lo costringe la società utilitaristica per riscoprirsi persona, fatta di molteplicità e di complessità, di fragilità, di limiti, di non-sapere…di desideri.





[1] M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2005.

giovedì 31 ottobre 2013

L'UOMO? E' AZIONE

Agiamo perché non possiamo non agire. L’azione si pone in noi, ci si presenta come una necessità, un obbligo. Siamo posti continuamente davanti a delle scelte che non possiamo ignorare. Prendere o lasciare, in ogni caso si sceglie. Sì o no. Sì o no inevitabilmente, astenersi non è concesso. Non è possibile evitare la difficile operazione di escludere le infinite possibilità a favore di una. La scelta implica necessariamente la morte, la morte, il no, a tutte le altre opzioni. Opzioni che noi chiamiamo tali, che riteniamo possibili, solo fintanto che non si è scelto. Poi diventano rinunce. Il prezzo da pagare per ogni sì, è il saluto definitivo a tutti gli altri possibili sì, a tutte le altre cose che avremmo potuto fare, a tutte le altre persone che avremmo potuto essere, a tutti gli altri desideri che avremmo potuto realizzare. Difficile, doloroso.

Eppure rimanere nell’indecisione non è possibile, non è concesso. Se non scegliamo subiamo la scelta. Non agire è sempre una scelta. Ma tra tanti possibili, cosa scelgo? Ho bisogno di sapere cosa è meglio, indagare cosa trovo in fondo ad ogni strada. Ma devo scegliere. Aspettare, comprendere, analizzare i fatti per rassicurarci su ciò che è più conveniente perseguire non  può essere fatto. La scelta è incalzante. Il tempo ci rincorre e non ci dà tregua per riflettere, urge  lanciarsi, orientarsi. La necessità della scelta non si ferma nel pensiero, implica l’impiego di tutti noi stessi, del nostro corpo, dei nostri atti. Non siamo mai a riposo. Niente di noi è risparmiato. Scrive il filosofo Maurice Blondel: “La pace è una sconfitta; l’azione, come la morte, non tollera dilazione. E’ dunque necessario <<di buon grado>> che io metta a disposizione testa, cuore e braccia, altrimenti mi vengono presi”. Il problema si pone, non resta che affrontarlo. Non potendolo sfuggire, siamo tutti portatori di una risposta a questa fatto. Anche se inconsapevoli ciascuno è testimone. Testimone dell’umano: dell’uomo e del senso della sua vita, niente di meno. Tutto emerge nell’azione. Gesti banali, quotidiani, meccanici, affatto sublimi o particolarmente significativi sono sempre inevitabilmente carichi di senso. Del nostro senso che diamo all’umano. Anche nel bere un bicchier d’acqua. Non siamo mai insignificanti, ce ne ricorderemo al prossimo sorso. O forse no?


sabato 26 ottobre 2013

Gli apprendisti stregoni


Topolino è l’apprendista stregone di un vecchio mago che gli affida come compito quello di pulire le stanze durante la sua assenza. Ma perché faticare quando ci si può avvalere di un potere come quello della magia e far fare alle cose ciò che avremmo dovuto fare noi?

Ecco che allora l’imprudente Topolino con in testa il cappello del mago dà vita alla scopa lasciando che essa faccia quello che lui non ha voglia di fare. E forte di questo potere appena conquistato si abbandona al sonno e ai sogni lasciando che la scopa animata faccia il suo dovere…

Tutti conosciamo come finisce la storia dell’apprendista stregone, reso famoso dal cartone animato della Disney ma che in realtà veniva già riportato da Goethe nel Faust.

Tale episodio ci ricorda una delle caratteristiche fondamentali dell’agire: la sua imprevedibilità. Con l’azione noi tutti diamo inizio a qualcosa di nuovo; è nell’agire che esprimiamo il nostro potere. Ma a volte accade che questo potere sfugga dalle nostre mani e non sappiamo fino in fondo come andrà a finire ciò a cui abbiamo dato inizio. Una sorta di effetto domino che si propaga, un’incapacità di valutare fino in fondo quali saranno le conseguenze del nostro agire.

Da dove ci viene questo potere? La filosofa Hannah Arendt ci risponderebbe che tale potere ci è dato in quanto siamo nati. Ogni nascita, ogni “venuto al mondo” porta in sè il nuovo, una novità che dà inizio, che comincia. Tale capacità di inizio, tale potere di cominciare qualcosa di nuovo noi lo conserviamo nell’azione, nell’agire. E il nostro essere “nati per cominciare” è ciò che permette – secondo Arendt – di sottrarci alla necessità e alla ripetitività e di introdurre nel mondo l’inatteso, l’inaspettato. Al punto che ogni nascita appare – da questo punto di vista – miracolosa, proprio perché in grado di introdurre un nuovo corso all’interno della storia dell’uomo.

Nella vita siamo quindi un po’ tutti degli apprendisti stregoni, non sempre capaci di gestire il potere che ci è stato dato o che decidiamo di assumerci. Ed è questo potere che chiama inevitabilmente in causa la nostra responsabilità. Siamo responsabili di fronte alle nostre azioni, e soprattutto di fronte alle conseguenze che da esse sono provocate. E siamo responsabili perché siamo liberi, perché siamo nati nella libertà e alla libertà. 

Come tutti i poteri di cui l’uomo è dotato e si dota la questione fondamentale è allora quella del buon uso di tale potere. Per non rischiare di far la fine dell’apprendista stregone.

mercoledì 23 ottobre 2013

DIPENDENTI DALL'URGENZA

“Si cerca di far presto per aver tempo che avanza”

Così canta Jovanotti nella sua canzone. Ci affaccendiamo per concludere i nostri obblighi e del tempo che ne ricaviamo otteniamo un avanzo. Come è un avanzo il fondo del piatto, che non ci sta più nello stomaco dopo che ci siamo abbuffati. Avanzo, che non dà più gusto, che non è più desiderato, appetibile. E per questo resto, per questo di più che perde di senso, ci affrettiamo, acceleriamo i ritmi, condensiamo impegni. Buttiamo tutto dentro. Dolce e salato insieme, e quando arriva la portata principale non siamo in grado di gustarla. Siamo pieni. Eppure lavoriamo per poter dare agio alla nostra famiglia, per godere insieme dei frutti degli sforzi. Ci sembra di fare tutto in funzione di quel tempo libero che finalmente dice di noi, del nostro essere autentici, felici, in compagnia delle persone care.

Ma non sappiamo cosa fare. Del tempo che avanza non sappiamo che farcene. Allora diamo un occhio al cellulare - è proprio vero che non mi ha chiamato nessuno?; controlliamo la posta - sia mai che ci dimentichiamo qualcosa di urgente, dato che è insolito, dunque sospetto, aver concluso tutto così presto!

Nessuno ha bisogno di me? Nessuno mi dice cosa fare, subito? È stato teorizzato che il bisogno di rispondere all’urgenza può essere considerato al pari delle altre dipendenze. L’adrenalina della fretta, la quota di rischio di non farcela e la gratificazione nel riuscire sono elementi che fanno provare piacere e che spingono a volerne ancora. Chi ha vissuto almeno una volta una giornata frenetica non potrà negare di essersi sentito indispensabile all’umanità, elemento fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio del sistema mondo e dunque uomo di valore. Arrivati a sera la stanchezza è assicurata quanto la serotonina in circolo. Siamo disposti a rinunciarci? Perché o per cosa dovremmo rinunciarci? Per una vita tranquilla? Quanti di noi trovano attraente una vita tranquilla? Certo non chi si aggrega al coro di vita spericolata di Vasco. Nell’immaginario comune vita tranquilla non indica forse più una vita che ha un tempo per ogni cosa, quanto una vita vuota.

Mi viene allora il sospetto che l’indolenza giovanile su cui i sociologi oggigiorno si soffermano tanto volentieri, quel senso di insignificanza della vita, della mancanza di scopi e di passioni delle ultime generazioni sia soltanto l’altra faccia della medaglia di una generazione adulta che farnetica frenetica. Frenetica perché pone al centro urgenza dopo urgenza, farnetica perché testimonia il falso ponendo al centro ciò che è urgente invece che importante. Se il tempo che avanza non diventa tempo di senso, non potrà che essere impregnato di noia. Noia che fa emergere una mancanza, un di più a cui siamo tesi al di là dei ruoli e delle cariche. Ruoli che troppo spesso tappano il buco di una mancata identità.



mercoledì 16 ottobre 2013

NON E' AFFARE DI DONNA

Ben venga la letteratura femminile. Ma il mondo del femminile non è affare di donna. Non è una questione da sbrigare tra di noi. Ogni donna, in quanto donna, ha il compito di diventare donna e si sa che la maturità è un affare personale; ma il compito di conoscere, comprendere, ritrarre la donna, è affare di ciascuno. O meglio, di chiunque abbia il desiderio di sondare quell’universo sconfinato che è la specie uomo, che si dà nelle versioni U-D. Non voglio arrivare a dire che gli uomini debbano sentire il bisogno di tratteggiare la complessa figura femminile, ma forse siamo proprio noi donne che soffochiamo e screditiamo qualunque contributo “esterno”, scoraggiando qualsiasi uomo-U che per curiosità intellettuale fosse spinto a indagare qualche tratto dell’uomo-D. Non monopolizziamo un sapere.
Aggirandomi recentemente per la biblioteca mi è sorta questa riflessione che mi porta a lanciare un appello: se raccogliamo con perizia dati sulla attuale condizione della donna, se realizziamo un’inchiesta seria, per favore non pubblichiamo il testo con la copertina fucsia! Quale uomo mai si avvicinerà allo scaffale per prendere in mano un libro che ha tutto della “donnicciola”? Come pensiamo di essere prese sul serio se non sappiamo prenderci sul serio? Se non sappiamo rinunciare ad un processo di editing efficace sul piano commerciale ma del tutto ininfluente su quello culturale? Qualsiasi riflessione contenuta tra le pagine è compromessa dal colore ostentato della copertina. Fucsia.
Non di certo un esibito femminismo farà emergere l’autenticità della differenza sessuale. E la questione non è del femminile, ma è del maschile e femminile insieme. Come dire dell’uomo senza la donna? E come della donna senza l’uomo? I due non possono dirsi senza, non per romanticismo ma perché il distorcere dell’uno scolorisce l’altro. 

Elena

lunedì 14 ottobre 2013

Filosof…cosa?!


Quest'estate mi è stato chiesto come si fa a filosofeggiare… Un quesito simile mi era già stato posto un paio di anni fa da una classe di terza superiore dal cui professore di filosofia ero stata coinvolta per partecipare ad un progetto. Anche questi ragazzi volevano sapere cosa fa il filosofo, di cosa si occupa. 

Questo tipo di domande mi prendono sempre un po' alla sprovvista; su due piedi non so mai cosa rispondere, di solito me la cavo blaterando qualcosa, che poi mi rendo conto a posteriori non essere chiaro nemmeno per me. 
Vediamo se, mettendo le cose nero su bianco, riesco a fare un po' di ordine anche nella mia testa.

Sicuramente il fare filosofia dei filosofi non è la disciplina scolastica che si studia nei licei. Nei licei si insegna la storia della filosofia: chi, quando, dove e perché ha detto e scritto determinate cose. Solitamente il percorso è svolto in ordine cronologico: da Talete alla filosofia del Novecento. Non che questo tipo di insegnamento sia un male, intendiamoci, la storia della filosofia si studia anche all'università, e serve a capire come il pensiero occidentale si è sviluppato lungo i secoli, da cosa è stato influenzato e cosa è riuscito ad influenzare. 
Quello che però dovrebbe risultare chiaro anche da questo studio cronologico della filosofia è che ogni filosofo, e chiunque voglia filosofare, parte da una domanda, da un perché. Quella che viene considerata la domanda fondamentale della filosofia, così come ci viene indicata da Leibniz, e poi ripresa e rilanciata da Heidegger è: "perché esiste l'essere piuttosto che il nulla?". Ma non è necessario spingersi così in là per misurarsi con la filosofia. Bastano dei perché più semplici. 
Chi filosofa in fondo non fa altro che riflettere sulla realtà. E con la realtà noi abbiamo a che fare tutti i giorni. Solo che non sempre abbiamo il tempo per fermarci a pensare su di essa. Il filosofo non si occupa di cose strane, alla fine il suo pane quotidiano è l'esistenza: la sua, quella degli altri, quella di Dio, quella del mondo… Si pone delle domande su questa realtà e va alla ricerca delle risposte, che non sempre arrivano, non sempre sono definitive, anzi solitamente sono spunti per nuove domande. 
Ecco, a chi mi chiede cosa fa il filosofo potrei proprio rispondere che FA DOMANDE. Come un bambino. Ma poi dovrebbe cercare da solo, leggendo, documentandosi, e soprattutto pensando, la risposta. 

Ma un altro compito che mi sento di affidare ai filosofi è quello che si esercita attraverso la critica, cioè la messa in discussione di tutto ciò che è dato per vero, giusto, buono, bello in modo assoluto o quasi. Il filosofo secondo me è chiamato, oggi forse ancor di più, a non fermarsi alla superficie delle cose, degli eventi, delle notizie, ma a scavare. A verificare se ciò che ci viene passato per vero è vero veramente. Un mio professore diceva che in filosofia non esiste il principio di autorità. Ora, questo non significa che vige l'anarchia più assoluta, ma semplicemente ognuno è chiamato a "pensare con la propria testa". 

L'esercizio del pensiero libero e critico è fondante in filosofia. Non serve di certo una laurea per esercitarlo. Siamo tutti dotati di una mente pensate, quindi potenzialmente siamo tutti un po' filosofi. Basta non perdere la capacità e la curiosità di porre domande. 


                                                 Giulia




sabato 12 ottobre 2013

IO TOCCO

Jean-Luc Nancy dice: “Vi siete già conosciuti come puro spirito? No. Ciò vuol dire che tanto voi che io non accediamo a noi stessi che dal di fuori.” Accedere a se stessi dal di fuori. Cos’è questo di fuori non specificato, questo luogo fondamentale per la conoscenza di noi stessi? Per dove dobbiamo passare per dire Io?  La parola non detta è: corpo. Apriamo allora le molte questioni: cos’è il corpo? che valore ha il mio corpo? ha senso parlare del mio corpo? 

Partiamo da qui: no, non ha senso parlare del mio corpo. Il corpo è mio e me lo gestisco io è uno slogan ormai superato. Se definisco ancora il corpo come ciò che è mio significa che io (un io che ancora non si capisce bene cosa sia) possiedo qualcosa, che è questa estensione qui, del corpo che ho e che è fatto così. Non possiamo più accettare questa versione comune del dualismo tra anima (questo Io che ancora non sa dire di sé più che per negazione) e corpo (come pura materia, accessoria al mio vero io, gestibile e malleabile).  

Come allora parlare del corpo? Parlarne come esposizione. Non solo perché esso è esposto, rivolto all’esterno, ma perché essere corpo consiste nell’esporsi. Si è corpo in quanto si è esposti. Non si può quindi parlare di intimità del corpo, esso non è mai raccolto in sé, concentrato. Esso non è un punto. Esso è sempre estensione. La pelle è questa esposizione dell’estensione. Attraverso la mia pelle io tocco. Tocco, mi tocco e sono toccato. E mi tocco dal di fori, non mi tocco dal di dentro. Bisogna che io sia un’esteriorità per toccarmi. Non possiedo questo fuori, sono questo fuori. E questo fuori che sono e che tocco, resta di fuori. Questo mio toccare il corpo e i corpi è il mio modo di essere nel mondo, del mio essere stesso, necessariamente qui. È esperienza. Esperienza è il mio experiri, andare fuori, uscire, attraversare. 

L’anima allora, che abbiamo lasciato da parte, quell’Io non meglio identificato non è altro che l’esperienza del corpo. Il corpo è esposizione e l’anima è l’esperienza di questa esposizione. Esperienza del tocco. Esperienza del corpo. L’Io allora non è il soggetto interno di un corpo, l’Io è un tocco. Tocco come rapporto. Anima è un nome per l’esperienza che il corpo è. 

Consapevole di un corpo scoperto, suscettibile e offerto al tocco, cerco per me tocchi più buoni, e di toccare con più delicatezza.

Elena