giovedì 31 ottobre 2013

L'UOMO? E' AZIONE

Agiamo perché non possiamo non agire. L’azione si pone in noi, ci si presenta come una necessità, un obbligo. Siamo posti continuamente davanti a delle scelte che non possiamo ignorare. Prendere o lasciare, in ogni caso si sceglie. Sì o no. Sì o no inevitabilmente, astenersi non è concesso. Non è possibile evitare la difficile operazione di escludere le infinite possibilità a favore di una. La scelta implica necessariamente la morte, la morte, il no, a tutte le altre opzioni. Opzioni che noi chiamiamo tali, che riteniamo possibili, solo fintanto che non si è scelto. Poi diventano rinunce. Il prezzo da pagare per ogni sì, è il saluto definitivo a tutti gli altri possibili sì, a tutte le altre cose che avremmo potuto fare, a tutte le altre persone che avremmo potuto essere, a tutti gli altri desideri che avremmo potuto realizzare. Difficile, doloroso.

Eppure rimanere nell’indecisione non è possibile, non è concesso. Se non scegliamo subiamo la scelta. Non agire è sempre una scelta. Ma tra tanti possibili, cosa scelgo? Ho bisogno di sapere cosa è meglio, indagare cosa trovo in fondo ad ogni strada. Ma devo scegliere. Aspettare, comprendere, analizzare i fatti per rassicurarci su ciò che è più conveniente perseguire non  può essere fatto. La scelta è incalzante. Il tempo ci rincorre e non ci dà tregua per riflettere, urge  lanciarsi, orientarsi. La necessità della scelta non si ferma nel pensiero, implica l’impiego di tutti noi stessi, del nostro corpo, dei nostri atti. Non siamo mai a riposo. Niente di noi è risparmiato. Scrive il filosofo Maurice Blondel: “La pace è una sconfitta; l’azione, come la morte, non tollera dilazione. E’ dunque necessario <<di buon grado>> che io metta a disposizione testa, cuore e braccia, altrimenti mi vengono presi”. Il problema si pone, non resta che affrontarlo. Non potendolo sfuggire, siamo tutti portatori di una risposta a questa fatto. Anche se inconsapevoli ciascuno è testimone. Testimone dell’umano: dell’uomo e del senso della sua vita, niente di meno. Tutto emerge nell’azione. Gesti banali, quotidiani, meccanici, affatto sublimi o particolarmente significativi sono sempre inevitabilmente carichi di senso. Del nostro senso che diamo all’umano. Anche nel bere un bicchier d’acqua. Non siamo mai insignificanti, ce ne ricorderemo al prossimo sorso. O forse no?


sabato 26 ottobre 2013

Gli apprendisti stregoni


Topolino è l’apprendista stregone di un vecchio mago che gli affida come compito quello di pulire le stanze durante la sua assenza. Ma perché faticare quando ci si può avvalere di un potere come quello della magia e far fare alle cose ciò che avremmo dovuto fare noi?

Ecco che allora l’imprudente Topolino con in testa il cappello del mago dà vita alla scopa lasciando che essa faccia quello che lui non ha voglia di fare. E forte di questo potere appena conquistato si abbandona al sonno e ai sogni lasciando che la scopa animata faccia il suo dovere…

Tutti conosciamo come finisce la storia dell’apprendista stregone, reso famoso dal cartone animato della Disney ma che in realtà veniva già riportato da Goethe nel Faust.

Tale episodio ci ricorda una delle caratteristiche fondamentali dell’agire: la sua imprevedibilità. Con l’azione noi tutti diamo inizio a qualcosa di nuovo; è nell’agire che esprimiamo il nostro potere. Ma a volte accade che questo potere sfugga dalle nostre mani e non sappiamo fino in fondo come andrà a finire ciò a cui abbiamo dato inizio. Una sorta di effetto domino che si propaga, un’incapacità di valutare fino in fondo quali saranno le conseguenze del nostro agire.

Da dove ci viene questo potere? La filosofa Hannah Arendt ci risponderebbe che tale potere ci è dato in quanto siamo nati. Ogni nascita, ogni “venuto al mondo” porta in sè il nuovo, una novità che dà inizio, che comincia. Tale capacità di inizio, tale potere di cominciare qualcosa di nuovo noi lo conserviamo nell’azione, nell’agire. E il nostro essere “nati per cominciare” è ciò che permette – secondo Arendt – di sottrarci alla necessità e alla ripetitività e di introdurre nel mondo l’inatteso, l’inaspettato. Al punto che ogni nascita appare – da questo punto di vista – miracolosa, proprio perché in grado di introdurre un nuovo corso all’interno della storia dell’uomo.

Nella vita siamo quindi un po’ tutti degli apprendisti stregoni, non sempre capaci di gestire il potere che ci è stato dato o che decidiamo di assumerci. Ed è questo potere che chiama inevitabilmente in causa la nostra responsabilità. Siamo responsabili di fronte alle nostre azioni, e soprattutto di fronte alle conseguenze che da esse sono provocate. E siamo responsabili perché siamo liberi, perché siamo nati nella libertà e alla libertà. 

Come tutti i poteri di cui l’uomo è dotato e si dota la questione fondamentale è allora quella del buon uso di tale potere. Per non rischiare di far la fine dell’apprendista stregone.

mercoledì 23 ottobre 2013

DIPENDENTI DALL'URGENZA

“Si cerca di far presto per aver tempo che avanza”

Così canta Jovanotti nella sua canzone. Ci affaccendiamo per concludere i nostri obblighi e del tempo che ne ricaviamo otteniamo un avanzo. Come è un avanzo il fondo del piatto, che non ci sta più nello stomaco dopo che ci siamo abbuffati. Avanzo, che non dà più gusto, che non è più desiderato, appetibile. E per questo resto, per questo di più che perde di senso, ci affrettiamo, acceleriamo i ritmi, condensiamo impegni. Buttiamo tutto dentro. Dolce e salato insieme, e quando arriva la portata principale non siamo in grado di gustarla. Siamo pieni. Eppure lavoriamo per poter dare agio alla nostra famiglia, per godere insieme dei frutti degli sforzi. Ci sembra di fare tutto in funzione di quel tempo libero che finalmente dice di noi, del nostro essere autentici, felici, in compagnia delle persone care.

Ma non sappiamo cosa fare. Del tempo che avanza non sappiamo che farcene. Allora diamo un occhio al cellulare - è proprio vero che non mi ha chiamato nessuno?; controlliamo la posta - sia mai che ci dimentichiamo qualcosa di urgente, dato che è insolito, dunque sospetto, aver concluso tutto così presto!

Nessuno ha bisogno di me? Nessuno mi dice cosa fare, subito? È stato teorizzato che il bisogno di rispondere all’urgenza può essere considerato al pari delle altre dipendenze. L’adrenalina della fretta, la quota di rischio di non farcela e la gratificazione nel riuscire sono elementi che fanno provare piacere e che spingono a volerne ancora. Chi ha vissuto almeno una volta una giornata frenetica non potrà negare di essersi sentito indispensabile all’umanità, elemento fondamentale per il mantenimento dell’equilibrio del sistema mondo e dunque uomo di valore. Arrivati a sera la stanchezza è assicurata quanto la serotonina in circolo. Siamo disposti a rinunciarci? Perché o per cosa dovremmo rinunciarci? Per una vita tranquilla? Quanti di noi trovano attraente una vita tranquilla? Certo non chi si aggrega al coro di vita spericolata di Vasco. Nell’immaginario comune vita tranquilla non indica forse più una vita che ha un tempo per ogni cosa, quanto una vita vuota.

Mi viene allora il sospetto che l’indolenza giovanile su cui i sociologi oggigiorno si soffermano tanto volentieri, quel senso di insignificanza della vita, della mancanza di scopi e di passioni delle ultime generazioni sia soltanto l’altra faccia della medaglia di una generazione adulta che farnetica frenetica. Frenetica perché pone al centro urgenza dopo urgenza, farnetica perché testimonia il falso ponendo al centro ciò che è urgente invece che importante. Se il tempo che avanza non diventa tempo di senso, non potrà che essere impregnato di noia. Noia che fa emergere una mancanza, un di più a cui siamo tesi al di là dei ruoli e delle cariche. Ruoli che troppo spesso tappano il buco di una mancata identità.



mercoledì 16 ottobre 2013

NON E' AFFARE DI DONNA

Ben venga la letteratura femminile. Ma il mondo del femminile non è affare di donna. Non è una questione da sbrigare tra di noi. Ogni donna, in quanto donna, ha il compito di diventare donna e si sa che la maturità è un affare personale; ma il compito di conoscere, comprendere, ritrarre la donna, è affare di ciascuno. O meglio, di chiunque abbia il desiderio di sondare quell’universo sconfinato che è la specie uomo, che si dà nelle versioni U-D. Non voglio arrivare a dire che gli uomini debbano sentire il bisogno di tratteggiare la complessa figura femminile, ma forse siamo proprio noi donne che soffochiamo e screditiamo qualunque contributo “esterno”, scoraggiando qualsiasi uomo-U che per curiosità intellettuale fosse spinto a indagare qualche tratto dell’uomo-D. Non monopolizziamo un sapere.
Aggirandomi recentemente per la biblioteca mi è sorta questa riflessione che mi porta a lanciare un appello: se raccogliamo con perizia dati sulla attuale condizione della donna, se realizziamo un’inchiesta seria, per favore non pubblichiamo il testo con la copertina fucsia! Quale uomo mai si avvicinerà allo scaffale per prendere in mano un libro che ha tutto della “donnicciola”? Come pensiamo di essere prese sul serio se non sappiamo prenderci sul serio? Se non sappiamo rinunciare ad un processo di editing efficace sul piano commerciale ma del tutto ininfluente su quello culturale? Qualsiasi riflessione contenuta tra le pagine è compromessa dal colore ostentato della copertina. Fucsia.
Non di certo un esibito femminismo farà emergere l’autenticità della differenza sessuale. E la questione non è del femminile, ma è del maschile e femminile insieme. Come dire dell’uomo senza la donna? E come della donna senza l’uomo? I due non possono dirsi senza, non per romanticismo ma perché il distorcere dell’uno scolorisce l’altro. 

Elena

lunedì 14 ottobre 2013

Filosof…cosa?!


Quest'estate mi è stato chiesto come si fa a filosofeggiare… Un quesito simile mi era già stato posto un paio di anni fa da una classe di terza superiore dal cui professore di filosofia ero stata coinvolta per partecipare ad un progetto. Anche questi ragazzi volevano sapere cosa fa il filosofo, di cosa si occupa. 

Questo tipo di domande mi prendono sempre un po' alla sprovvista; su due piedi non so mai cosa rispondere, di solito me la cavo blaterando qualcosa, che poi mi rendo conto a posteriori non essere chiaro nemmeno per me. 
Vediamo se, mettendo le cose nero su bianco, riesco a fare un po' di ordine anche nella mia testa.

Sicuramente il fare filosofia dei filosofi non è la disciplina scolastica che si studia nei licei. Nei licei si insegna la storia della filosofia: chi, quando, dove e perché ha detto e scritto determinate cose. Solitamente il percorso è svolto in ordine cronologico: da Talete alla filosofia del Novecento. Non che questo tipo di insegnamento sia un male, intendiamoci, la storia della filosofia si studia anche all'università, e serve a capire come il pensiero occidentale si è sviluppato lungo i secoli, da cosa è stato influenzato e cosa è riuscito ad influenzare. 
Quello che però dovrebbe risultare chiaro anche da questo studio cronologico della filosofia è che ogni filosofo, e chiunque voglia filosofare, parte da una domanda, da un perché. Quella che viene considerata la domanda fondamentale della filosofia, così come ci viene indicata da Leibniz, e poi ripresa e rilanciata da Heidegger è: "perché esiste l'essere piuttosto che il nulla?". Ma non è necessario spingersi così in là per misurarsi con la filosofia. Bastano dei perché più semplici. 
Chi filosofa in fondo non fa altro che riflettere sulla realtà. E con la realtà noi abbiamo a che fare tutti i giorni. Solo che non sempre abbiamo il tempo per fermarci a pensare su di essa. Il filosofo non si occupa di cose strane, alla fine il suo pane quotidiano è l'esistenza: la sua, quella degli altri, quella di Dio, quella del mondo… Si pone delle domande su questa realtà e va alla ricerca delle risposte, che non sempre arrivano, non sempre sono definitive, anzi solitamente sono spunti per nuove domande. 
Ecco, a chi mi chiede cosa fa il filosofo potrei proprio rispondere che FA DOMANDE. Come un bambino. Ma poi dovrebbe cercare da solo, leggendo, documentandosi, e soprattutto pensando, la risposta. 

Ma un altro compito che mi sento di affidare ai filosofi è quello che si esercita attraverso la critica, cioè la messa in discussione di tutto ciò che è dato per vero, giusto, buono, bello in modo assoluto o quasi. Il filosofo secondo me è chiamato, oggi forse ancor di più, a non fermarsi alla superficie delle cose, degli eventi, delle notizie, ma a scavare. A verificare se ciò che ci viene passato per vero è vero veramente. Un mio professore diceva che in filosofia non esiste il principio di autorità. Ora, questo non significa che vige l'anarchia più assoluta, ma semplicemente ognuno è chiamato a "pensare con la propria testa". 

L'esercizio del pensiero libero e critico è fondante in filosofia. Non serve di certo una laurea per esercitarlo. Siamo tutti dotati di una mente pensate, quindi potenzialmente siamo tutti un po' filosofi. Basta non perdere la capacità e la curiosità di porre domande. 


                                                 Giulia




sabato 12 ottobre 2013

IO TOCCO

Jean-Luc Nancy dice: “Vi siete già conosciuti come puro spirito? No. Ciò vuol dire che tanto voi che io non accediamo a noi stessi che dal di fuori.” Accedere a se stessi dal di fuori. Cos’è questo di fuori non specificato, questo luogo fondamentale per la conoscenza di noi stessi? Per dove dobbiamo passare per dire Io?  La parola non detta è: corpo. Apriamo allora le molte questioni: cos’è il corpo? che valore ha il mio corpo? ha senso parlare del mio corpo? 

Partiamo da qui: no, non ha senso parlare del mio corpo. Il corpo è mio e me lo gestisco io è uno slogan ormai superato. Se definisco ancora il corpo come ciò che è mio significa che io (un io che ancora non si capisce bene cosa sia) possiedo qualcosa, che è questa estensione qui, del corpo che ho e che è fatto così. Non possiamo più accettare questa versione comune del dualismo tra anima (questo Io che ancora non sa dire di sé più che per negazione) e corpo (come pura materia, accessoria al mio vero io, gestibile e malleabile).  

Come allora parlare del corpo? Parlarne come esposizione. Non solo perché esso è esposto, rivolto all’esterno, ma perché essere corpo consiste nell’esporsi. Si è corpo in quanto si è esposti. Non si può quindi parlare di intimità del corpo, esso non è mai raccolto in sé, concentrato. Esso non è un punto. Esso è sempre estensione. La pelle è questa esposizione dell’estensione. Attraverso la mia pelle io tocco. Tocco, mi tocco e sono toccato. E mi tocco dal di fori, non mi tocco dal di dentro. Bisogna che io sia un’esteriorità per toccarmi. Non possiedo questo fuori, sono questo fuori. E questo fuori che sono e che tocco, resta di fuori. Questo mio toccare il corpo e i corpi è il mio modo di essere nel mondo, del mio essere stesso, necessariamente qui. È esperienza. Esperienza è il mio experiri, andare fuori, uscire, attraversare. 

L’anima allora, che abbiamo lasciato da parte, quell’Io non meglio identificato non è altro che l’esperienza del corpo. Il corpo è esposizione e l’anima è l’esperienza di questa esposizione. Esperienza del tocco. Esperienza del corpo. L’Io allora non è il soggetto interno di un corpo, l’Io è un tocco. Tocco come rapporto. Anima è un nome per l’esperienza che il corpo è. 

Consapevole di un corpo scoperto, suscettibile e offerto al tocco, cerco per me tocchi più buoni, e di toccare con più delicatezza.

Elena

martedì 8 ottobre 2013

CHE TI RIDI?


E' luogo comune pensare ai filosofi come individui distratti, con la testa tra le nuvole. Famoso è l'aneddoto, che racconta Platone, della schiavetta tracia che, vedendo il filosofo Talete cadere in un pozzo mentre contemplava il cielo e il moto degli astri, scoppiò a ridere; ed è lo stesso Platone che aggiunge: «Chiunque consacri la sua vita alla filosofia è esposto a simile scherno… La folla intera del volgo si unirà alla serva di Tracia del ridere di lui…poiché nella sua goffaggine fa la figura dello scimunito»
(Teeteto).

Bene, non siamo di certo qui a convincervi del contrario, non vogliamo in alcun modo sfatare alcuni miti che durano da secoli, né tanto meno dimostrare che all'opposto di quello che si pensa anche i filosofi sono dotati di senso pratico, del dono della sintesi e sopratutto della chiarezza espositiva. Non temete, nulla di tutto questo!

Anzi, se possibile, ribadiremo quello che secondo noi è centrale della filosofia, ovvero l'esercizio del pensiero, senza il quale siamo convinte che non si vada da nessuna parte, anzi, la cui soppressione potrebbe avere davvero conseguenze disastrose. 

E allora prendiamoci e prendetevi questo spazio per riflettere, per rimanere anche solo per due minuti soprappensiero, per incentivare quel dialogo tra sé e sé, che come dice Hannah Arendt, è l'essenza stessa del pensiero.


Giulia&Elena