In questo tempo di festa, il
tempo del Natale, non è forse appropriato scrivere sul male. Eppure il tema mi
si è presentato, e non credo poi che sia fuori luogo. Se si festeggia la
nascita di un Dio che si è fatto uomo per esserci più vicini, come giustificare
il male che sempre sperimentiamo? La
domanda su come conciliare la presenza del male con l’esistenza di Dio percorre
tutti i secoli e forse in questo tempo natalizio dove vediamo tutto più
rosa e ci è chiesti di essere più buoni (non dalla religione quanto dalla
televisione..) non fa male sollevare alcune questioni . Senza pensare di poter
fare una storia del pensiero sul male possiamo dire che a lungo si è cercato di
giustificare Dio. I discorsi sono diversi tra loro ma tutti devono sottostare a
coerenza logica: non deve esserci contraddizione all’interno e si deve trattare
di una totalità sistematica.
I presupposti irrinunciabili di partenza sono:
Dio è onnipotente
Dio è assolutamente buono
Tuttavia il male esiste
Senza voler far sembrare tutto
molto schematico e difficile (e pure noioso), basta dire: se Dio è buono, e può
tutto, perché allora il male con la sua esistenza ha la meglio sulla bontà e
sulla potenza di Dio? Se Dio può tutto perché non elimina il male? Forse non è
così potente? E allora cadiamo in contraddizione con i principi di cui sopra. O
forse non è assolutamente buono. Altra contraddizione. Non possiamo supporre
che il male non esista… dunque, da dove viene il male? I tentativi di
risposta sono molti. Ne sfioriamo, seguendo Paul Ricoeur, alcuni.
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Il Mito: quello che ora, ai nostri occhi sembra
spiegazione fantastica per bambini è stato un contenitore importantissimo di
diverse spiegazioni. I diversi miti sono anche tra loro non coerenti, spesso
volutamente, ma la loro ragion d’essere è di consentire di articolare in un linguaggio l’esperienza del male. Ogni mito offre la sua risposta “inquadrando la doglianza del supplicante in
una cornice di un universo immenso” , e così offre la “consolazione
dell’ordine”.
Dopo il mito la domanda si
perfezione dal perché? Al perché io? Non basta raccontare
(descrivere) quali sono le origini della condizione umana ma è chiesto di argomentare
(trovare le cause) del perché per
ciascuno la propria condizione umana è
tale (ovvero inestricabile dal male).
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Una spiegazione
esemplare è espressa dal concetto di
Retribuzione: “ogni sofferenza è meritata perché è la punizione di un peccato
individuale o collettivo, conosciuto o sconosciuto.”Questa soluzione lascia
però insoddisfatti chi ha un senso di giustizia: la ripartizione appare
arbitraria.
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Per Agostino l’esperienza del male è “esperienza
insieme individuale e collettiva dell’ impotenza dell’uomo di fronte alla potenza demoniaca di
un male già là, prima di ogni iniziativa malvagia imputabile a qualche intenzione
deliberata.” Il male esiste ma non come sostanza bensì come mancanza di
essere. L’uomo compie il male quando si allontana da Dio e va verso il nulla,
il male dunque non appartiene all’uomo, non è creato da Dio, non sussiste, non
ha essere, è privazione di essere, è negazione di Dio.
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Leibniz nella sua teodicea sostiene che il nostro mondo è il migliore dei mondi
possibili, perché, se fosse stato possibile creare un mondo migliore, Dio lo
avrebbe creato. Questo enunciato tiene insieme senza contraddizioni i
principi anche se si sbilancia troppo presumendo di conoscere i limiti di Dio. Ad
ogni modo, ciò che più fa pensare con scetticismo è che c’è bisogno di forte ottimismo per affermare che il bilancio di questo
mondo è complessivamente positivo.
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Hegel promuovendo la sua dialettica sostiene che la negatività è ciò
che costringe ciascuna figura dello Spirito a rovesciarsi nel suo contrario, ovvero
fa coincidere il tragico e la logica: è
necessario che qualche cosa muoia perché qualcosa di più grande nasca.
Tutto il male è superato, la riconciliazione vince sulla lacerazione. Eppure
questa visione universale “Dissocia radicalmente la riconciliazione (che ha una
dimensione universale) da ogni consolazione che si rivolga all’uomo in quanto
vittima(dimensione particolare).” Non potremmo allora non essere d’accordo
con Hegel quando dice che la storia“non
è il terreno della felicità.”
Sul piano del pensiero il
problema del male è una sfida. Cercare di offrire una soluzione a questo
dilemma, a questo conflitto insanabile per la ragione umana è impossibile. La sfida raccolta da Ricoeur è quella di
pensare di più e pensare altrimenti: il problema del male davanti a Dio non va
sottomesso all’esigenza di coerenza logica perché “il nostro pensare non può
essere esaurito dai ragionamenti che sottostanno alla non-contraddizione e alla
nostra propensione per la totalizzazione sistematica.” Alla domanda sempre aperta del perché, la risposta- e non la soluzione-
è data dall’azione e dalla spiritualità, esse continuano il lavoro del
pensiero affinché diano frutto nel registro dell’agire e del sentire.
Dalla domanda donde viene il male,
la risposta dell’azione è: cosa fare
contro il male? Ogni azione etico-politica che diminuisca il male commesso
dagli uomini contro gli altri uomini è risposta pratica alla domanda sul male. Ma essa ha riscontri anche sul piano del
pensiero: prima di accusare Dio, agiamo eticamente contro il male.
Resta però una parte di
sofferenza non causata dall’azione malvagia degli uomini, come rispondere al
male degli innocenti? Alle catastrofi naturali? La risposta pratica non è più
sufficiente.
La risposta emozionale serve a
completare la risposta- e non la soluzione, che presupporrebbe una totalità
sistematica inammissibile- di un pensare altrimenti. Ricoeur prende in esame la trasformazione dei sentimenti che
generano la lamentazione e la doglianza.
Questa proposta è presentata solo come uno dei cammini passibili, è un percorso
difficile e non può valere da modello. Per osservare le trasformazioni dei
sentimenti pone a tema il lutto, ovvero la perdita di un oggetto di amore percepita
come perdita di se stessi.
In una situazione di questo tipo
il primo passo da compiere è dare scacco alla teoria della retribuzione: se
soffro per un lutto non devo accusarmi di qualche colpa. Dio non ha voluto punirmi, né voleva si compisse questo male.
Il secondo passo è quello della
doglianza contro Dio, protestare la permissio divina -ovvero l’idea che
Dio non abbia compiuto il male ma abbia permesso che venisse compiuto: bisogna intendere la relazione dell’uomo con Dio
come un processo reciproco, costruire insieme l’Alleanza. “L’accusa contro Dio
è qui l’impazienza della speranza”.
Il terzo stadio della
spiritualizzazione della lamentazione sta nello scoprire che le ragioni del credere in Dio non hanno niente in comune
con il bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. La sofferenza è uno scandalo solo per colui che comprende Dio come
origine di tutto ciò che è buono, compresa indignazione contro il male e la
simpatia per le sue vittime. Non dobbiamo credere in Dio perché non permette il
male, bensì “noi crediamo in Dio a dispetto del male.”
Non rientriamo negli schemi
chiusi e limitanti della non contraddizione, ma apriamoci a un pensare
altrimenti, per trovare risposte- e non soluzioni, al nostro stato, Questo è il
pensare altrimenti che ci offre il filosofo:
“ l’orizzonte verso cui si dirige
questa saggezza mi pare essere una rinuncia ai desideri stessi la cui ferita
produce la lamentazione: rinuncia innanzi tutto al desiderio di essere
ricompensato per le proprie virtù, rinuncia al desiderio di essere risparmiato
dalla sofferenza, rinuncia alla componente infantile del desiderio di
immortalità. Alla fine del libro di Giobbe è detto che Giobbe è giunto ad amare
Dio per nulla. Amare Dio per nulla
significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la
lamentazione resta ancora prigioniera, tanto che la vittima si lamenta per
l’ingiustizia della propria sorte.”[1]
[1] Tutte le
virgolettature sono di P.Ricoeur, Il male,
1993, Editrice Morcelliana. Le pagine non sono indicate perché il testo è molto
bello e breve e invito a leggerlo integralmente!