lunedì 14 aprile 2014

POTERE E' VOLERE

Bacone dice: “sapere è potere” . La conoscenza è la chiave per dominare la natura e poter superare i limiti che ci impone. Possiamo volare, telefonare, costruire grattaceli. Il sapere ci offre un maggiore potere di azione. Eppure la conoscenza, che porta tanti vantaggi, non deve trarci nell’inganno di credere che ciò che è possibile è lecito.

Assistiamo allo stravolgimento dell’incitante volere è potere, dove al primo posto c’è la volontà dell’uomo a rappresentanza dei suoi desideri e aspirazioni, all’ imperativo potere è volere, dove al centro c’è la tecnica che con le sue scoperte condiziona la nostra volontà: se è possibile, perché no? Se possiamo averlo, se si può fare, perché no? Cosa importa desiderarlo? 
Il punto è se posso averlo. 
Lo posso, lo vorrò.


Abbiamo assistito in questi giorni ad un cambiamento importante nella nostra legislazione e non ci siamo soffermati a riflettere sulle conseguenze che comporta. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge 40 che vietava la fecondazione eterologa. Ciò significa che da ora una coppia che non può avere figli naturali può ottenere il gamete che gli serve (spermatozoo od ovulo) in una banca del seme e fecondarlo in provetta col gamete “sano” della coppia e infine impiantarlo nel grembo della donna.

I problemi etici che emergono sono molti, soprattutto nei confronti del nascituro. Colui/colei che consegna il proprio gamete non è un donatore, come si usa chiamarlo, ma nei fatti è il genitore del nascituro. Questo implica che il nascituro ricuserà inevitabilmente della sua origine “plurale” sia a livello psicologico (da dove vengo? Chi è il mio vero padre/madre?- domande tipiche di un orfano) che a livello fisico e salutare. Il nascituro inoltre potrebbe imbattersi nel corso della vita in fratelli biologici non conosciuti, visto che i gameti di un donatore possono essere destinati a più coppie. Si sottovaluta anche l’aspetto psicologico della coppia che dopo la soddisfazione di aver ottenuto un figlio può percepire il nuovo nato come un estraneo, e vivere il genitore biologico come una intruso nella relazione di coppia e la fecondazione come un tradimento.

Ma ciò che davvero mi preoccupa è ciò che in tutta la faccenda resta velato. Il nascituro avrà a che fare con una origine “impegnativa” e avrà bisogno di tempo e forze e riflessioni per comprendere la sua origine e la sua identità. Il difficile compito sarà sostenuto dal sincero amore dei genitori e confido che a partire da questa insolita origine, o nonostante questa insolita origine, avrà la possibilità di una vita felice.

Il punto che resta in ombra invece è la condizione dei genitori. L’impossibilità di avere dei figli è un elemento di dolore e questo deve essere rispettato. Così come deve essere rispettato il desiderio di maternità e paternità che spinge la coppia alla ricerca di un figlio. Ma quando un genitore dà la vita a un figlio non è la vita del figlio che dà, ma la sua stessa di genitore. C’è una sola vita che si può dare a un figlio, ed è la propria. Se dunque per il figlio che si desidera non si è in grado (difficile compito!) di dare la propria vita fino a rinunciare di avere quel figlio a tutti i costi, per il suo bene, quale esempio di maturità e paternità offriamo  nella nostra società?

Se un uomo non è in grado di sopportare e trasformare il proprio dolore di uomo, quale genitore ed educatore può essere? Può assumersi la responsabilità di padre chi non è in grado di assumere su di sé la propria responsabilità di uomo? Si può accettare una società in cui le frustrazioni e le sofferenze di una coppia di adulti (si possono ancora chiamare adulti?) sono riversate su un esserino innocente? Quali attese ancor prima della nascita ricadono su quel bambino, per sua stessa essenza! Quale compito ingrato spetta al nascituro: essere la risposta al desiderio di felicità dei genitori! 
Dove sta l’amore in tutto questo?


E si parlava di gratuità…

domenica 23 marzo 2014

C'E' POSTO PER L'AMORE IN UNA SOCIETÀ GIUSTA?

Da cittadini democratici, non toccateci la giustizia!  Che essa sia il fondamento delle nostre società non lo mettiamo in discussione, tanto che, peggio vanno le cose e minore equità percepiamo, tanto più rispolveriamo la nostra radicata (anche se talvolta dimenticata) credenza nell’ideale di giustizia che percepiamo violato. Mi sono però imbattuta in una riflessione di Paul Ricoeur che ha suscitato in me un dubbio: è desiderabile una società giusta? Voglio subito chiarire che non sto fomentando l’egoismo, né auspicando una società della legge del più forte, mi chiedo però se la giustizia non saturi il comportamento umano, che invece è ricco di sfumature, e di slanci. Ma partiamo con ordine.

Il concetto di giustizia può essere espresso dalla Regola d’Oro: fa agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Comunemente accettato da pensatori politici, la Regola ha origine nel comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. Di fronte a questo comandamento sorgono due perplessità, la prima è immediata: come posso amare a comando? Se l’amore è un sentimento e non una scelta della ragione, come posso, anche volendo, suscitarlo in me? E come può Dio comandarlo come fosse un dovere e non un sentimento spontaneo e originario? Sorge allora il nodo della questione, amore e giustizia, come possono stare insieme?

La seconda perplessità segue a ruota la prima: se l’amore è nel segno della gratuità, del “ama chi ama per primo, senza attendersi nulla in cambio”, cosa sta a significare il che vorresti fosse fatto a te? Non è la logica del do ut des? Non si perde così del tutto l’amore a favore di una logica di giustizia distributiva (a ciascuno il suo) che rende interessato ogni atto dovuto all’altro, affinché anche a me torni la mia parte? Non si cade in un individualismo sfrenato e subdolo, in quanto coronato da un falso alone di giustizia? Ebbene sì, se non necessariamente, siamo ad alto rischio di caduta.


 Eppure..cominciamo a rispondere al primo punto: il comando di amare non va letto nell’ottica di un imperativo della legge “Ama!” come fosse il linguaggio del giudice. Amore  e giustizia infatti hanno linguaggi differenti. Se la giustizia è prosa, e il suo imperativo è legge, l’amore è poetico, e il suo imperativo è supplica, appello, invito amoroso. L’amore non argomenta, chiama. La giustizia argomenta, e distribuisce. Non c’è dunque un dovere di amare ma una libera risposta ad un appello pressante, patetico, appassionato.

Per rispondere al secondo punto dobbiamo fare un passo in più. È un’aggiunta che sembra confondere ancora di più le acque. Come il Vangelo ci consegna la Regola d’Oro, così ci consegna il Comandamento Nuovo. In esso ci viene svelata un’altra faccia dell’amore: amate i vostri nemici. I nostri nemici! E’ questa la giustizia a cui dobbiamo aspirare? Dobbiamo mirare ad una società che tollera, ama, i nemici? Dobbiamo trattare da pari chi ci fa un torto? Qui il legame amore-giustizia si perde immediatamente. Siamo confusi. Forse non siamo pronti per questo tipo di società, forse non la vogliamo proprio.

Ma ora ci è richiesto uno sforzo in più: indaghiamo il significato di questo comando. Abbiamo visto che il rischio della regola d’oro è di appiattire l’amore ad un giusto equilibrio di doni e ricompense. Accettando come punto di arrivo il criterio della distribuzione proporzionale perdiamo il pathos di chi dà perché ama per primo; perdiamo la gratuità dell’amore; perdiamo la bellezza di ricevere un dono inatteso; perdiamo il piacere di fare un gesto non dovuto. Perdiamo insomma l’amore nelle sue sfumature, nelle sue sorprese, nella sua spontaneità.

Non siamo però ancora convinti che il nuovo metro di misura sia il comandamento Nuovo. Un conto è amare con intensità e generosità, un conto è scavalcare a piè pari ogni logica di equità. Giustizia e amore sembrano davvero  non poter stare insieme. Sorprendentemente è a questo punto che troviamo la soluzione. Il loro legame è proprio stare in questa dialettica mai conciliabile. Il comandamento Nuovo è il segno della sovrabbondanza dell’amore, della grandezza dell’amore, che supera ogni criterio di regolamentazione umana. È la sproporzione della capacità di amare sulla capacità di governare una società giusta. Senza questa sovrabbondanza il criterio della giustizia si appiattirebbe alla logica della distribuzione proporzionale: tanto dai tanto ricevi. C’è ancora posto per l’amore in una società giusta? No, l’amore è estromesso e sostituito dai calcoli distributivi. Contro questo appiattimento si rivolge allora la nuova faccia dell’amore, che chiama ad amare i nemici. Ma il comando ad amare il prossimo come se stessi non deve essere scavalcato, quanto superato.

Non si costituisce una società giusta senza un amore autentico per il prossimo, senza un debito nei confronti dell’altro ma questo amore non è possibile senza passare attraverso la condivisa giustizia. La sovrabbondanza non è amorale né immorale, ma sovra morale. Assume, fa propria, ascolta il richiamo della giustizia per generare un di più e con questo di più è di monito alla stessa giustizia perché non si riduca  a mero calcolo interessato. Ecco che una società giusta sarà desiderabile solo se sarà allo stesso tempo più che giusta, se persisterà in essa la dialettica delle inconciliabili.

Grazie Paul, noi ci proviamo.


mercoledì 19 febbraio 2014

Filosofia e disabilità: alcune riflessioni

Ieri sono stata invitata in una classe di quarta superiore di un liceo della mia città per aiutare gli studenti, che si stanno preparando per il Viaggio della Memoria, a riflettere e continuare la loro riflessione sul tema della disabilità. Già, perché quest’anno il Viaggio della memoria li porterà a Norimberga, luogo simbolo della persecuzione nazista, da cui tutto è cominciato. Infatti, pochi sanno o si ricordano che tale persecuzione ha avuto tra le prime vittime propri i disabili: uomini, donne, ma soprattutto bambini considerate “vite indegne di essere vissute” o peggio ancora nutzlose Esser, mangiatori inutili. Per capire come e in che termini si è svolta questa vicenda vi riamando alla lettura o alla visione dello spettacolo di Marco Paolini Ausmerzen.

Dalle provocazioni che mi sono state lanciate dai ragazzi ho ricavato alcune riflessioni che condivido anche qui, a partire da tre concetti: quello di alterità, quello di unicità e quello di perfezione.

Con l’alterità si fa i conti tutti i santissimi giorni. Ogni giorno ci scontriamo con l’alterità, che è tutto ciò che non può essere ridotto all’io, a me. Altro è mia mamma che questa mattina mi ha fatto trovare pronto il caffè come tutte le mattine perché anche se sono grande rimango sempre e comunque la sua bambina; altro è il mio vicino di casa che incrocio tutte le mattine sulle scale e che saluto di sfuggita; altro è il mio vicino di banco con il suo tic nervoso e quello strano modo di accavallare le gambe. Sono circondata da altro, da altri.

Tutti i giorni facciamo i conti con questa alterità, con questa irriducibilità degli altri a noi.

E questa alterità la si esperisce soprattutto negli affetti: lottiamo, soffriamo, ci arrabbiamo perché l’altro, chi amiamo – genitore, fratello, sorella, amico, morosa, moroso, marito, moglie – non sono come noi li vorremmo, non rispondono pienamente e completamente ai nostri desideri, non dicono quella cosa lì che noi volevamo sentirci dire proprio in quel momento lì.

Fare i conti con l’alterità è allora fare i conti con lo straniamento, col dirsi “ma dove sono capitato?”, sono strano io o sono strani gli altri. Fare i conti con l’alterità si accompagna spesso ad una sensazione di disorientamento, di insicurezza: sono forse io che sbaglio? Avrò detto qualcosa che non andava detto? Fatto qualcosa che non andava fatto?
L’alterità mette in crisi la nostra identità, fa vacillare le nostre sicurezze, ci chiede un mettersi in gioco, un’uscita da noi stessi, un incontro, uno sguardo su chi ci sta di fronte e ci interroga.

E l’interrogazione sorge ancora più forte, ancora più urlata se l’altro che ci sta davanti è ancora più altro dell’altro: se porta con sé un’alterità ancora più difficile da guardare, su cui levare lo sguardo, ancora più difficile da incontrare. Se chi ci guarda è una persona disabile.
Questo suo essere ancora più altro dell’altro, mette ancora più in crisi l’io, la sua identità. Le sue sicurezze consolidate. E fa sorgere la domanda delle domande: perché? Perché? Perché?

Ma io non ho risposte per questa domanda.
Però posso provare a rispondere ad un’altra domanda che mi è stata posta, ovvero: quale posto occupano nell’esistenza le persone disabili?

 E la risposta è semplice anche se non immediata: lo stesso che occupa ciascuno di noi!

Ognuno di noi occupa un posto che è unico, irripetibile. Nessuno di noi può essere in alcun modo sostituito, cambiato con qualcun altro. Nessuno.
Ognuno di noi è unico! E l’unicità, la nostra unicità deve, essere il valore: è il nostro essere, il nostro essere qui e adesso, il nostro esistere che ha valore. La nostra esistenza particolare, unica, irripetibile.
Tutto ciò che abbiamo, le nostre qualità, le nostre capacità non ci sarebbero se noi non esistessimo. Aristotele parlava di sostanza e di attributi: ecco la nostra esistenza è la sostanza, il fatto che ci siamo, che esistiamo, che abbiamo un nome e un cognome, il nostro essere e il nostro esserci è la sostanza, tutto il resto – il nostro essere sani, biondi, belli, alti, bassi, magri, grassi, veloci, lenti, coscienti, consapevoli… – è attributo. Questo non significa che non ha valore, significa solo che non è il fondamento su cui deve basarsi e misurarsi la dignità di una vita.

Una vita è degna perché è vita. E ogni vita è degna perché è unica, irripetibile, incommensurabile.

Non facile né evidente cogliere questo concetto. È sicuramente molto più facile vedere il valore di una vita nella sua efficienza, nel possesso di alcune qualità, nell’esercizio di alcune capacità.
Ma se queste capacità, qualità, efficienze non hanno un soggetto a cui appoggiarsi che senso hanno, dove vanno?
Non incontro la coscienza di Zeno per strada, incontro Zeno.
Non incontro le abilità di Chiara, incontro Chiara.
Non incontro la disabilità di Marianna, incontro Marianna.

Incontro sempre un soggetto, un’alterità, un unicum.

Il rischio altissimo poi di porre il valore nell’avere e non nell’essere, nell’esercizio di alcune qualità e non nel soggetto che può possederle è l’arbitrio. Cioè che chiunque in qualunque momento della storia possa stabilire arbitrariamente quali qualità hanno diritto di cittadinanza all’interno del genere umano e quali invece no. Quali qualità attribuiscono dignità ad una persona e quali invece no.
Il rischio è allora quello della discriminazione, della ghettizzazione, della abolizione.

Se io non riconosco il valore nel soggetto in quanto tale ma lo riconosco solo nell’esercizio di alcune qualità allora sto già correndo il rischio della discriminazione.
Che poi è quello che di fatto è già avvenuto e avviene ancora.


E per finire cito da un testo di un romanzo che sto leggendo, si intitola Tempo di imparare di Valeria Parrella e come si suol dire casca a fagiolo, perché racconta la storia di questa mamma che deve imparare ad accettare la disabilità del proprio bambino:

«Quale canone dovettero inventarsi gli antichi, che stesse lì a fondare il normale, se poi tutto ciò che ha saputo rivelare la normalità è stata la sua assenza? Una Nike senza testa ma con le ali, una Venere senza le braccia, un Mosè sfregiato. E il corpo di Frida Kahlo trapunto di ferro come fanno le stelle con il cielo.
In questo stesso esatto senso io dico che tu con il tuo passo incerto, con il tuo occhio sghembo, la parola tua attorcigliata, sei l’essenza del quadro».

Quale normalità dunque e quale perfezione?
Il rischio è quello di farsi ammaliare da questa ricerca di perfezione. E dietro ogni ricerca di perfezione, dietro ogni utopia di mondo perfetto c’è un disegno assolutistico, perché non si può pensare di avere tutto perfettamente sotto controllo senza ricorrere all’uso della violenza. Ogni dittatore in fondo è mosso da un’idea di perfezione, basti pensare a quello che ha fatto appunto Hitler in nome di una razza da lui considerata superiore.
Oggi soprattutto siamo costantemente bombardati da messaggi pubblicitari, e non, che ci dicono che solo chi è forte è vincente, chi è sano è vincente, chi è bello è vincente, chi ha il fisico scolpito, chi guadagna molto, chi scala le vette del potere è vincente…
Nessuno ci parla mai dei nostri limiti, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze.
La nostra cultura ha plasmato un modello di uomo che deve essere un superuomo, di una donna che deve essere multitasking se no non è abbastanza fashion e cult…Parlano a noi come se dovessimo essere immortali. Come se non si dovesse morire mai, come se la malattia e il tempo della malattia non esistessero.
Ecco, forse non è il caso di dimenticare che invece siamo mortali, siamo caduchi, siamo finiti. E nella nostra finitezza c’è anche tutta la nostra fragilità, tutti i nostri limiti, tutte le nostre difficoltà.

Neanche l’arte con la sua aspirazione all’immortalità è riuscita a conservare intatte e perfette le sue opere. Forse perché sono fatte da mani d’uomo? Come possiamo pensare noi di conservarci per l’eternità? Non pensate che sia un po’ troppo ambizioso?

Quelle opere di cui ancora oggi ammiriamo la bellezza e il fascino ci ricordano che anche noi siamo un po’ come loro: fragili, mancanti, imperfetti nonostante il nostro anelito alla perfezione.

Nella disabilità tutto questo emerge con più immediatezza, con più violenza, con più mistero…
Ma non è distogliendo gli occhi, abbassando lo sguardo, passando oltre e tanto meno estirpando, abbattendo, bruciando che possiamo allontanare da noi questa provocazione.

È quanto c’è di bello e di beffardo nel mistero della vita. E prendere consapevolezza di questo mistero, di queste domande a cui non sempre si riesce a dare una risposta è davvero una nuova nascita. È
nascere due volte.


venerdì 24 gennaio 2014

CRISI - LA POVERTÀ CHE FA TENDENZA

La parola crisi deriva dal greco “crino”, ovvero discernere, scegliere, decidere. Che stiamo attraversando un periodo di crisi, e dunque di cambiamento, è noto. Che questo però sia un problema lo abbiamo stabilito noi, e lo abbiamo deciso linguisticamente. Il concetto di crisi ha infatti nel nostro linguaggio una evidente accezione drammatica; parlarne risulta impegnativo, scomodo, allarmante. Possiamo tuttavia sostituirlo con il concetto originario greco e definire così la nostra epoca un’epoca di scelte. Senza alterare la realtà delle cose possiamo focalizzarci su un aspetto differente: non stiamo attraversando un periodo di buio oltre il quale torneremo in terra piana. Stiamo ristrutturando gli elementi costitutivi del nostro modo di vivere, smantellando le parti inadatte e ricomponendo in modo creativo i tasselli rimanenti.

 Quest’opera di edilizia sociale innovativa non è né compito né occasione riservato a noi, nella storia. Interpretare in modo nuovo il vivere comune appartiene ad ogni epoca - se riconosciamo che ogni epoca è in evoluzione rispetto alla precedente. Non è allora una questione di sfortuna trovarci a vivere in questo tempo. La Storia si presenta sempre in nuove vesti. Scrive Adorno: la Storia “indica quel modo di comportamento tradizionale degli uomini caratterizzato dal fatto che in esso appare l’elemento qualitativamente nuovo”. Storia  come una tradizione-innovativa o una innovazione-tradizionale. In ogni caso la Storia si differenzia dalla Natura per il fatto che non è pura riproduzione di se stessa ma è “movimento che ottiene il proprio significato attraverso il nuovo che appare in esso”.

Ed ecco che anche noi ci adattiamo con fantasia al nuovo che ci appare incontro.

Tra chi si è guardato attorno forse qualcuno concorderà: c’è più tolleranza circa i pagamenti, siamo tutti in difficoltà e siamo meno sospettosi; non è di moda fare il pieno, cinque euro di benzina è la nuova tendenza; un’esperienza liberatoria è dire pubblicamente “non ho soldi!” e chi li ha rischia di risultare volgare; se una volta ci si vantava delle nuove scarpe da quattrocento euro, oggi mostrarle è da sboroni, cool è averne trovate in saldo a 40 euro;
fare la spesa è più veloce. Se qualche anno fa un carrello non bastava, ora si riempie appena- di sottomarche e si preferisce eventualmente tornare per i “ritocchini”, tanto alla cassa si fa presto; si vive meglio e più rilassati il rapporto con la banca, che può ben poco su un conto vuoto; ogni famiglia ha fatto proprio il proposito di far girare l’economia e chi ha nel portafoglio qualche banconota la investe subito nell’attività del parente rimasto a secco.


Chi non trovasse evidente questo nuovo trend della società fa parte di quella piccola cerchia, specie rara, che non si è  - forse ancora - trovata in alcuna di queste situazioni. Lascio ognuno libero di desiderare a quale cerchia appartenere (a livello di desiderio possiamo più di ciò che la dura realtà ci consente!). Ma siamo forse tutti d’accordo su chi, tra il sistemato pasciuto e il precario ingegnoso, abbia esercitato le proprie risorse e sviluppato l’acutezza necessarie per guidare il cambiamento. La sfida che esso ci offre è antidoto per contrastare la noia dell’eterno ritorno di stagioni sempre uguali.

“nella natura non accade nulla di nuovo sotto il sole, in tal senso il giuoco, pur multiforme, dei suoi fenomeni porta con sé una certa noia. Solo nei mutamenti che hanno luogo sul terreno spirituale nascono novità”[1]

Portatori sani di novità, all’opera!




[1] Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia.

venerdì 17 gennaio 2014

CONDANNATI A GODERE

Ho una domanda. Questa domanda non so se sia la domanda più in voga al giorno d’oggi, quella che riempie tolk-show e richiede interventi di sociologi e psicologi, oppure sia una domanda inusuale, soffocata dalle mode, le pubblicità, l’urgenza di problemi sociali come il lavoro, la casa e altro. Indipendentemente dal fatto che ci si sia già posti questa domanda o meno, eccola: l’uomo contemporaneo sa godere? L’uomo contemporaneo come lo descriviamo noi nei nostri discorsi, nei nostri desideri, nelle nostre rappresentazioni (cinematografiche-  culturali) sa godere? Se mettiamo a modello di riferimento il don Giovanni, capace di concedersi ogni piacere, senza remore morali, senza rinunce o divieti, è questo modello rappresentativo dell’ uomo di oggi? Detto altrimenti: l’uomo di oggi è un don Giovanni?


Se fosse invece vero che l’uomo della nostra epoca non sa più godere?

Questa prospettiva non sembra particolarmente azzeccata, di primo acchito. L’epoca del proibizionismo, del potere del pater familias, della dipendenza femminile, del costume sociale, l’abbiamo lasciata alle spalle da molto tempo, tanto che le ultime generazioni non l’hanno mai vissuta e quell’epoca “così bigotta” la conoscono per sentito dire. Oggi nessuno, o sempre meno persone, fanno “i moralisti”. Non a caso chi sostiene una visione rigorosa e regolamentata di vita è chiamato “moralista” e canta fuori dal coro, quando un tempo il coro cantava con lui.

Cosa è cambiato? Interrogando da profani la psicanalisi si potrebbe dire che Super io e Inconscio, fino a qualche tempo fa, rappresentavano chiaramente due voci: Il Super io indicava l’agire etico della società, le regole e la morale depositarie del divieto di godere. Il Super io come un grande occhio esterno che ti guarda e dice “no!” “non devi!”, “non si fa!”, giudicandoti ad ogni sgarro; l’Inconscio di contrasto era il luogo nascosto, taciuto e inconfessabile in cui si insinuavano i pensieri di piacerei illeciti e i desideri proibiti, condannati a venir ricacciati giù ad ogni loro tentativo di fare capolino. Violare un divieto morale richiedeva un atto di trasgressione e aveva come contropartita il senso di colpa.

Una lettura diversa di Super-Io e Inconscio è invece quella di Lacan, come suggerisce Žižek. Lacan sostiene che i ruoli siano esattamente invertiti. Dal momento in cui Dio è morto, ovvero è caduta la legge e con essa il divieto e il castigo, si inaugura l’epoca dell’ateismo e del nichilismo. Ora il Super Io impone il divieto di non godere. Il senso di colpa arriva non quando ci si abbandona al piacere, ma quando non si arriva a goderne, quando si perde un' occasione. Di conseguenza, quel Dio che si voleva morto è diventato il Dio Inconscio, un impulso sotterraneo che muove al pudore. Un freno, una remora che ci sussurra piano-troppo piano, e ci lascia- di tanto in tanto, incerti sul da farsi.
.

Ecco che emerge il motivo della domanda se l’uomo di oggi sa ancora godere. Diventando un imperativo: Godi!, il godimento perde la sua libertà. La costrizione al godimento non ha nulla di diverso dalle precedenti norme “moraliste”. Crediamo di vivere in un’epoca dove tutto è lecito ma siamo invece immersi in una libertà fittizia. La società si aspetta da noi ciò il cui sottrarci suscita senso di colpa, frustrazione: “Non sono capace di divertirmi”. Non siamo liberi ma costretti al godimento e questo godimento, anche quando raggiunto, è sempre insoddisfacente perché il Super io ci spinge sempre ad un oltre. Da qui sono immaginabili le possibili derive sociali.

Che fine ha fatto allora il don Giovanni? Questo personaggio è capace di godimento perché ottiene soddisfazione ingegnandosi e rischiando. Il don Giovanni conquista. L’uomo contemporaneo colleziona. Inserisce in fila piaceri seriali, automatici.

“ma scusatemi, come volete essere un conquistatore in un territorio dove nessuno vi impedisce alcunché, dove ogni cosa è possibile e tutto è permesso?”

Questo è il nostro territorio. La domanda allora è: colleziono o conquisto?



domenica 5 gennaio 2014

Non c'è futuro senza perdono


Un mese fa moriva Nelson Mandela. Tante parole sono già state dette per ricordare questo uomo che senza dubbio ha segnato la storia del Sudafrica e non solo. Non voglio aggiungerne altre, ma mi è sembrato alquanto strano che tra tutte le parole che io ho sentito nessuna abbia fatto riferimento a quello che, dal mio punto di vista, è stato forse uno degli eventi più esemplari realizzati da Mandela e non solo.
Tutti sanno che Mandela è stato il primo presidente nero eletto democraticamente nel 1994 dopo quasi cinquant’anni di apartheid; che prima di poter essere eletto rimase in prigione per ventisette anni; che fu grazie a lui che il Sudafrica tornò ad essere un paese democratico e libero… Ma forse non tutti sanno quale strumento è stato utilizzato per permettere al Sudafrica di diventare quella nazione arcobaleno in cui una convivenza pacifica tra neri e bianchi fosse realmente e realisticamente possibile.

Come fare a ricostruire una nazione che fino al giorno precedente si nutriva di odi razziali e si fondava sulla segregazione e sullo scontro tra neri e bianchi? Come fare a gestire un passato intriso di sangue, di violenze, di morti, di diritti calpestati, di trasferimenti forzati, di scomparse misteriose? Come far ripartire una convivenza pacifica all’interno di una nazione divisa e dilaniata dall’odio?
Tutte queste risposte si trovano nel libro Non c’è futuro senza perdono[1] di Desmond Tutu, arcivescovo di Città del Capo, che aiutò il neo-presidente Mandela in quest’opera di ricostruzione.

Per fare i conti con il passato obbrobrioso che pesava sui cittadini sudafricani venne istituita la Truth and Reconciliation Commission, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione. La filosofia che stava dietro questa commissione si fondava sul concetto di ubuntu, parola intraducibile nella nostra lingua che esprime il fatto che ciascun uomo è inserito in una rete di relazioni tale per cui la propria umanità è indissociabile dall’umanità dell’altro; quindi una diminuzione di umanità da parte di una persona all’interno della rete provoca una diminuzione di umanità nella rete stessa. In base a questo principio si scelse allora di percorrere una strada completamente diversa rispetto a quella punitiva tenuta nel processo di Norimberga, in cui le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale giudicarono i gerarchi nazisti; o a quella della rimozione e dell’oblio del passato. Il modello adottato dal Sudafrica fu quello che Tutu definisce “un compromesso tra il modello rappresentato dai processi di Norimberga e un’amnistia generale basata sulla rimozione della coscienza”. L’idea fondamentale fu allora quella di concedere l’amnistia in cambio della confessione completa dei crimini per cui veniva richiesta. Il perdono in cambio della verità.

Venne così offerta alla popolazione sudafricana la possibilità di far emergere la verità, di raccontare ciò che era accaduto in quegli anni terribili di divisioni e di violenze. Venne data ai carnefici la possibilità di chiedere perdono di fronte alla nazione dei reati di cui si erano macchiati, e alle vittime di raccontare ciò che avevano subito e chiedere per questo una riparazione che aveva il valore simbolico di ripristinare la loro dignità umana e civile calpestata per lunghi anni.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha potuto toccare con mano gli abissi di depravazione e di male a cui l’uomo può giungere, ma al tempo stesso ha potuto verificare anche la grande disponibilità al perdono che alcune vittime avevano conservato, sperimentando così non solo la “banalità del male” ma anche la “banalità del bene”, che passa attraverso la gente comune. Questa testimonianza è stata fondamentale per il Sudafrica ed è ciò che ha permesso al popolo sudafricano di prendere in mano le redini del suo futuro e dare a se stesso la possibilità di ricominciare e di pensare ad una convivenza pacifica tra bianchi e neri.

La grande verità che la Commissione ha così visto rivelarsi sotto i suoi occhi è che l’uomo, se vuole, è capace di bene; c’è sicuramente una disponibilità a compiere il male, ma nonostante questo in Sudafrica si è riusciti a spezzare la spirale del negativo e a ripristinare una circolarità virtuosa che ha traghettato il paese fuori dalle spire dell’apartheid.


[1] D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001.